E’ sempre difficile analizzare il mondo della comunicazione, in particolar modo l’ambito dei social media vista la rapidità e l’imprevedibilità delle loro evoluzioni. A livello macroscopico però non si possono ignorare segnali evidenti.

Uno di questi è sicuramente la vertiginosa ascesa del fenomeno Twitter. Credo che il livello di successo di un servizio/prodotto/sistema si giudichi anche dal grado di conversione più o meno forzato di un certo tipo di mondo. Lo stesso tipo di mondo che poi arriva ad influenzarlo  fino a trasformarne la concezione in qualcosa di sostanzialmente differente rispetto allo spirito originario.

Nato infatti poco più di 5 anni fa come idea di condivisione di messaggi brevi ed immediati è ad oggi uno dei canali privilegiati per la segnalazione di contenuti. Anche a livello visivo il passo in avanti è stato sancito da un’evoluzione dell’interfaccia in modo da facilitare ed espandere l’esperienza. In Italia il numero di utenti registrati ed attivi ha già raggiunto l’ordine di grandezza dei milioni e sembra che in qualche modo, oltre al vastissimo pubblico comune, la possibilità di lanciare Tweets piaccia moltissimo al mondo commerciale (in senso lato).

Diverse aziende cominciano a comunicare direttamente con i loro acquirenti o utilizzatori attraverso Twitter sfruttando la sua rapidità e facilità: allo stesso modo anche l’universo della notorietà sembra aver abbracciato la piattaforma. Ed è facile comprenderne i motivi: la totale assenza di filtro consente una immediata comunicazione con i propri followers che instaurano in questo modo un’interazione altrimenti impossibile con i canali convenzionali. Le statistiche confermano sostanzialmente questa tendenza: basta per esempio vedere quali siano le realtà più seguite, gli argomenti principali, gli eventi che scatenano il maggior numero di comunicazioni. Non è un caso che l’esplosione italica del fenomeno sia coincisa con la discesa “in campo” sempre più generalizzata da parte di star dello spettacolo.

Se per ora Twitter non scalfisce certo lo zoccolo duro dei quasi 20 milioni di utenti Facebook italiani, certo è un canale privilegiato per un certo tipo di utilizzatori. La nascita di fenomeni come il giornalismo partecipato è sostanzialmente attribuibile allo sviluppo di tecnologie social ed in particolare Twitter: viene preferito solitamente per la rapidità di impiego e per la univocità direzionale. Quella che per esempio non è garantita su Facebook dove le anteprime, il riportare messaggi prolissi, il tam tam di commenti e obiezioni porta spesso alla mistificazione o alla perdita di impatto. A livello più superficiale è poi facile vedere come la cronaca si stia spostando sempre più dalle colonne di giornali e dagli schermi televisivi alle pagine Twitter. Addirittura diverse comunicazioni aziendali o istituzionali vengono ormai delegate al social, segnale di un cambiamento abbastanza epocale all’interno del mondo della comunicazione.

A livello personale apprezzo la possibilità di inserire concetti e materiale rapidamente e direttamente, ricevere input, contenuti, link interessanti: ma ritengo che la mancanza di uno scambio impoverisca la comunicazione rendendola adatta solo a un numero limitato di tipologie. E’ indubbio che Facebook risulti più dispersivo, lento e per certi versi meno “fresco” ma la possibilità di uno scambio a “doppio senso” reale gli conferisce quel valore aggiunto che forse manca a Twitter: certo il botta e risposta è possibile, ma è meno visibile e rimane in un ambito più affine all’sms che non a uno stream che permetta a chiunque di visualizzare ed eventualmente integrare i contenuti.

Senza dover necessariamente stilare una graduatoria si può dire che siano due eccellenti canali ma difficilmente ci si può definire utenti social a tutto tondo rinunciando alle potenzialità di uno dei due. Twitter è sicuramente vincente per chi ha un’attività, un progetto, un’idea e desidera crearsi un seguito per farsi conoscere ed interagire in maniera istantanea con gli interessati, più forse che con una brand page. Ma nell’uso quotidiano si avverte la mancanza di un confronto più dettagliato ed approfondito, quantomeno per chi ha interesse al dialogo ed a uno scambio più costruttivo.

Le statistiche raccolte nel corso degli anni danno un quadro ancora più chiaro sulle dinamiche di utilizzo dei cinguettii: l’età media, lo status sociale, la condizione economica indicano un’utenza mediamente adulta, di ceto medio alto, consapevole ed avvezza alle nuove tecnologie – senza dubbio differente dall’estrazione dei membri Facebook.

Come tutti i fenomeni di massa, specie se esplosi in fretta ed in un universo variegato come quello delle nuove tecnologie, Twitter è spesso al centro di dibattiti ormai sempre più frequenti, visto ormai il massivo ricorso ai 140 caratteri da parte di cariche istituzionali e personaggi influenti a vario titolo.

Ed a fronte di un’esaltazione generale c’è chi – come recentemente Michele Serra – cerca di sottolineare gli eventuali punti deboli non tanto del sistema ma del suo utilizzo scorretto. Il pensare soprattutto che il microblogging intasato di hashtags rappresenti la via migliore per comunicare qualsiasi tipo di concetto o contenuto. Il discorso di Serra, per quanto osteggiato e tacciato di “McLuhanesimo”, ha certamente dei tratti condivisibili, soprattutto per quanto concerne la condanna dell’uso poco ragionato della parola (critica peraltro già espressa con toni e motivazioni analoghi nei confronti di altri mezzi di comunicazione e divulgazione).

Specie poi nella concezione socio-commerciale si può notare come la gestione del medium ne trascenda le potenzialità trasformandole in mera ricerca di visibilità. Non era un mistero il ricorso a stratagemmi di varia natura per gonfiare il numero di followers ma una polemica recente ha riacceso la questione. Una serie di post su un blog intitolato fakespotter poneva l’accento sulle sospette crescite di followers di alcuni personaggi minori, slegate da qualsiasi motivazione valida per un simile fenomeno.

La pratica del Cherry blossoming, quella cioè di generare a vario titolo un seguito di contatti falsi che aiutino a far crescere la visibilità di un personaggio, è l’ennesima arma di marketing volta a sfruttare una piattaforma per scopi personalistici. E per quanto raffinata o studiata questa tecnica è facilmente individuabile, cosa che genera solitamente (almeno per quel che mi riguarda) un certo scadimento nella considerazione delle realtà in oggetto.

Tutto ciò non per contestare la bontà di un software per molti aspetti rivoluzionario, ma per comprendere come la sua deflagrante comparsa abbia generato nuovi criteri di valutazione nel giudicare il peso e l’influenza della propria immagine: un alto numero di followers, un’attività frequente, il trattare con tempismo argomenti che registrano un’alta soglia di attenzione è diventata ormai una prassi quasi irrinunciabile per chiunque desideri mantenersi in auge. E’ da trasformazioni simili che è percepibile l’apporto della tecnologia nel mondo della comunicazione contemporanea, dove il successo si articola sul grado di apertura e condivisione piuttosto che sull’irraggiungibilità come nei decenni passati.

Credits: Twitaholic / Flowtown